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L’omicidio della baronessa di Carini è un delitto che è stato tramandato ai posteri grazie ad una celebre ballata dei cantastorie. Quest’ultima narra di un “cani patri” che, la notte del 4 dicembre 1563, ha ucciso la propria figlia, dopo aver scoperto che la nobildonna […]
“Chi ti misiru i morti? U pupu cu l’anchi torti” Un’antica credenza popolare siciliana narra che nella notte di Ognissanti, tra l’1 ed il 2 novembre, i morti visitano i familiari ancora in vita, portando doni ai più piccoli. La festa dei morti non aveva […]
L’omicidio della baronessa di Carini è un delitto che è stato tramandato ai posteri grazie ad una celebre ballata dei cantastorie. Quest’ultima narra di un “cani patri” che, la notte del 4 dicembre 1563, ha ucciso la propria figlia, dopo aver scoperto che la nobildonna […]
L’omicidio della baronessa di Carini è un delitto che è stato tramandato ai posteri grazie ad una celebre ballata dei cantastorie. Quest’ultima narra di un “cani patri” che, la notte del 4 dicembre 1563, ha ucciso la propria figlia, dopo aver scoperto che la nobildonna aveva una relazione clandestina con un giovane della famiglia Vernagallo. Il libro aiuta a ricostruire le tessere di questo giallo che continua ancora oggi, a distanza di quattro secoli e mezzo, ad essere oggetto di ricerca e di approfondimenti.
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Leggere “Delitto d’onore o di successione “ di Angela Sabatino equivale a fare un viaggio in una dimensione in cui la storia si carica di mille sfaccettature, misteriose e impalpabili, quelle che diventano appannaggio di una comunità intera presso cui la vicenda si è svolta e che travalicano i confini di quel tempo, iscrivendosi nel libro della memoria comune. La storia dell’infelice baronessa di Carini, uccisa il 4 dicembre 1563, viene ripercorsa con attenzione e, direi, amore, attraverso la ricerca di fonti documentarie che possano svelarne le esatte coordinate, riportate in opere di altri studiosi o in Archivi dell’epoca. L’autrice del testo fa, però, tanto altro: il suo è un lavoro che avvince perché non si limita certo a passare al vaglio documenti, ma si “cala” in quel mondo, scruta, dall’interno, le dinamiche psicologiche dei personaggi, attori, più o meno consapevoli, della loro storia. Leggendo, ci ritroviamo a condividere le paure di una donna, la povera Laura Lanza, nata in una famiglia aristocratica, che, per amore, infrange i costumi dell’epoca, trasgredendone le norme non scritte, ma condivise, della comunità, del mondo in cui vive, tradendo il marito, Vincenzo La Grua, impostole da suo padre, il barone Cesare Lanza, quello che la uccide e che, nella ballata popolare, ci è presentato come “ cani patri”. Quell’impronta insanguinata rimasta sulla parete del castello di Carini, a imperitura memoria di un misfatto che va contro natura, pur se avallato da un’atavica ”morale”, è stigma di un’ingiustizia, perpetrata, ieri come oggi, ai danni di una donna, vittima designata dal suo stesso ambiente. L’autrice, nel ricostruire la vicenda, sa cogliere, sapientemente, anche lo scontro di due mentalità, quella, imperante e tracotante, del mondo aristocratico, che assolve il padre e l’imbelle marito correo, e quella, sottesa e latente, del mondo popolare, che, invece, riscatta la baronessa, definendola, nella omonima ballata, “gigliu di Carini”, colpevole soltanto di avere scelto il suo amore, Ludovico Vernagallo. Non era facile porgerci una storia, tanto dibattuta e analizzata, in modo così “nuovo”, ma l’autrice è riuscita a “rigenerarla”, a ricostruirla sotto i nostri occhi, a dipanarne i fili della vicenda, risolvendo, anche, i dubbi che, man mano, si affacciavano alla mente. Il testo, meritevole di plauso sotto il profilo della ricerca storica, si porge come un thriller, che, nel rispetto della verità cercata con acuta intelligenza, si presenta peraltro avvincente per un impianto narrativo fluido e scorrevole, assolutamente coinvolgente, in cui l’autrice privilegia un’esposizione mai stereotipata né incline alla facile retorica.
“Chi ti misiru i morti? U pupu cu l’anchi torti” Un’antica credenza popolare siciliana narra che nella notte di Ognissanti, tra l’1 ed il 2 novembre, i morti visitano i familiari ancora in vita, portando doni ai più piccoli. La festa dei morti non aveva […]
Un’antica credenza popolare siciliana narra che nella notte di Ognissanti, tra l’1 ed il 2 novembre, i morti visitano i familiari ancora in vita, portando doni ai più piccoli. La festa dei morti non aveva lo scopo di impaurire i bambini, ma di creare un surreale momento di incontro tra viventi e persone scomparse. Grazie a questa giornata commemorativa i genitori, infatti, riuscivano ad esorcizzare quel tetro cimitero e a trasmettere ai figli un rapporto più sereno con la morte.
Il 2 Novembre i bambini si alzavano di buon mattino, perché sapevano che “i morti erano già passati” e che in casa avrebbero trovato “u canistru”, ovvero un grande cesto di vimini che aveva all′interno:
La giornata proseguiva con la visita al cimitero per ricordare i propri “morticieddi”. Prima addirittura si mangiava sulla tomba o nella cappella di famiglia, tradizione in seguito proibita da un editto papale. La preghiera recitata dai bambini è la seguente:
«Armi santi, armi santi,
iu sugnu unu e vuatri siti tanti,
mentri ca sugnu nta stu munnu di guai
cosi di morti mittitiminni assai.»
Traduzione → «Anime sante, anime sante, io sono uno e voi siete tante. Nel frattempo che io sono in questo mondo di guai, fatemi avere tanti doni dei morti».
La notte di Ognissanti ai bambini si raccomandava di rimboccare bene le coperte altrimenti: “Li morti vennu e ti grattanu li pedi”, ovvero ti solleticano i piedi, da qui l’uso di nascondere le grattugge! Tipica era l’espressione di “apparare i scarpi” che consisteva nel sistemare le scarpe vecchie in un angolo della casa per ritrovarle la mattina seguente nuove e colme di dolci, come taralli e tetù.
Nelle case siciliane i dolci venivano disposti su una tavola, perché si riteneva che in quella notte i defunti venissero a cenare nella loro vecchia casa. La strenna dei morti rappresenta un esempio simbolico di patrofagia: cibarsi dei dolci equivaleva a cibarsi del ricordo dei propri defunti. Storicamente la festa dei morti nacque come capodanno celtico e solo in seguito fu trasformata in festa religiosa. Secondo l’anno druidico il 1 novembre era il Samhain, che segnava la fine dei raccolti e il primo giorno d’inverno. In questo giorno il Signore delle tenebre oltrepassava il confine del mondo dei morti per richiamare a sé tutti gli spiriti. I Celti, per accogliere questi spiriti, accendevano falò, ponevano lumi alle finestre e preparavano loro del cibo, proprio come nella ricorrenza siciliana.
Quando i Romani conquistarono la Britannia rimasero affascinati dal Samhain e assimilarono questi costumi all’equivalente celebrazione di Pomona, la dea dei frutteti. In seguito, papa Bonifacio IV, il 13 maggio 610, istituì la festa di tutti i martiri, tuttavia intorno all’835, papa Gregorio II, non riuscendo a sradicare i culti pagani, spostò la festa di Ognissanti dal 13 Maggio al 1 Novembre con la speranza di riuscire ad evangelizzare i riti profani. Infine, nel X secolo, la Chiesa introdusse il 2 Novembre, ovvero la “Festa dei Morti”.